I ”gialli” delle seconde

 “Durante l’anno appena trascorso gli alunni delle due classi seconde della Secondaria di primo grado si sono cimentati

nella scrittura di gialli”.

Oggi pubblichiamo ”La medaglia in giallo” e ”Omicidi paralleli”. Buona lettura

LA MEDAGLIA IN GIALLO

di Sara Martorella, Alexandra Pancamo, Antonio Pasceri, Arianna Poppa, Valentina Siervo

Siamo in Australia nel lontano 1950. Durante una competizione scompare improvvisamente una medaglia d’oro. La polizia, non riuscendo a risolvere il caso, chiede aiuto ad un investigatore di Londra, solo lui riuscirà a risolvere il furto e a consegnare alla giustizia il ladro.

Prima parte

“Siamo giunti alla conclusione di questa giornata, ma, prima di andarcene, svelerò il nome del vincitore della medaglia d’oro per i 100 metri” annunciò il presentatore. Seguirono urla, grida e applausi da parte del pubblico sugli spalti, tra cui il noto investigatore Jason Brown.

“Arthur Carter!”.

L’atleta si diresse sul podio con aria fiera, ringraziando tutti i presenti e stringendo la mano del presidente dell’associazione S.R.C. per cui gareggiava.

Dopo aver ricevuto la medaglia e dopo aver risposto a qualche domanda dei giornalisti, si ritirò negli spogliatoi.

Sugli spalti, intanto, avveniva una discussione in modo acceso, tra Allyson Carter, la moglie del vincitore, e un uomo sulla quarantina.

Sembrava una discussione iniziata già da tempo riguardo ad un argomento personale che avrebbe dovuto rimanere segreto tra Allyson e quell’uomo.

L’uomo, alto e robusto, era un affascinante uomo single appassionato di atletica, che aveva incontrato Allyson ad una gara a Londra.

Nel frattempo Arthur stava entrando in doccia e non si accorse che in quel momento qualcuno era entrato negli spogliatoi…

Pochi minuti dopo un urlo squarciò l’aria, i pochi presenti si voltarono e si precipitarono in quella direzione dove trovarono un corpo senza vita disteso in mezzo al campo. Nessuno aveva visto niente.

Qualche ora dopo lo stadio si era svuotato e la polizia scientifica si trovava sul luogo del ritrovamento del cadavere. Arthur era visibilmente sconvolto dall’accaduto perché la vittima dell’incidente era sua moglie, Allyson.

“È evidente che si tratta di un suicidio” disse uno degli agenti “sì, la donna si è tolta la vita buttandosi giù dagli spalti, ma non capiamo… mi scusi, lo stadio è chiuso, se ne deve andare” si interruppe il poliziotto. Proprio in quel momento l’investigatore Jason Brown entrava da un ingresso laterale e si dirigeva verso gli agenti.

“Buongiorno, mi chiamo Jason Brown, sono un investigatore e ritengo che voi vi stiate sbagliando. Se ho sentito bene, ritenete che si tratti di un suicidio, ma non credo sia veramente così”.

I poliziotti lo squadrarono e uno di essi disse: “Mi scusi, ripeto che Lei non può stare qui, deve andarsene”. Jason non dava segni di volersene andare, osservò il cadavere e rispose: “Se me ne darete la possibilità, vi spiegherò che in realtà si tratta di un omicidio”.

La polizia lo costrinse ad andarsene.

Intanto Arthur tornava negli spogliatoi per prendere lo zaino, la medaglia e recarsi a casa e lì si accorse di una strana polvere gialla sul pavimento; in un primo momento non ci fece caso, poi, non trovando la medaglia, iniziò a preoccuparsi e si rese conto che la polvere gialla era la sua vitamina.

Realizzare che era stata rubata la medaglia che rappresentava tutto l’impegno di una vita lo sconvolse a tal punto che aspettò molto prima di avvisare la polizia. Quando lo fece, il ladro doveva essere già lontano…

La polizia iniziò le indagini per capire come fosse morta la donna e per ritrovare la medaglia, ma queste non diedero alcun risultato.

Dopo qualche settimana di lavoro senza risultati un agente si ricordò di quell’uomo che affermava di poter spiegare che non si trattava di un suicidio, ma di un omicidio. Il suo superiore, seppur irritato, decise di ascoltare quello che egli aveva da dire.

Seconda parte

Squillò il telefono, era la polizia.

“Salve, sono il commissario Barnes della polizia di Melbourne, vorrei parlare con Jason Brown”.

“Buongiorno, mi dica”.

“È Lei Jason Brown?”

“Sì, sono io”.

“Bene, vorremmo sapere se possiede delle informazioni riguardo alla morte della Sig.ra Carter”.

“Vi offrirei il mio aiuto, ma sono un investigatore privato, non lavoro con la polizia”.

“Se volessimo collaborare con Lei, come potremmo fare?”

“Come ho già detto, non collaboro con la polizia, ma potrei investigare per conto di qualcun altro. Pensateci. Arrivederci”.

Dopo aver fatto qualche ricerca su Jason Brown il commissario scoprì che era un ragazzo sulla trentina, alto e magro. Capelli neri e ricci, occhi verdi e pelle olivastra.

Jason era un ragazzo simpatico e con molti amici, ma di pochi si fidava veramente. Non molto sensibile, ma comprensivo, sapeva ascoltare e, quando si trattava di aiutare qualcuno, era sempre in prima fila.

Era nato a Liverpool nel 1990 da una famiglia benestante, il padre poliziotto era molto severo e aveva insegnato a Jason la disciplina, la concentrazione e la capacità di osservazione. La madre era una brava e abbastanza famosa giocatrice di scacchi e aveva svolto un ruolo fondamentale nella vita di Jason.

All’età di 13 anni si era trasferito con la famiglia a Londra per un’opportunità di lavoro offerta al padre; Jason aveva frequentato studi umanistici, poiché era sempre stato affascinato dalle lingue antiche.

Oltre alla laurea in giurisprudenza aveva preso un Master in psicologia giuridica.

Il padre era morto quando lui aveva 23 anni; la madre aveva un problema di mobilità all’anca, Jason da tempo si occupava di risolvere casi di furti e omicidi, in veste di investigatore privato.

Aveva una predilezione per i casi di omicidio in cui l’assassino aveva architettato tutto con ingegno, non sopportava di risolvere casi “di una banalità fuori dal comune” come diceva lui; talvolta non accettava di risolvere casi se non dopo averci pensato per qualche giorno.

Non aveva un aiutante, come Sherlock Holmes con il suo fidato amico Watson, ma sparsi in giro per il mondo aveva amici che, nel momento del bisogno, se a conoscenza di informazioni, spuntavano fuori dal nulla per aiutarlo.

Jason teneva molto alla sua vita privata e cercava sempre di tenere il mondo esterno fuori dalle sue questioni personali.

Suo malgrado, da quando era diventato un personaggio conosciuto, veniva seguito dai giornalisti che sospettavano una qualche fidanzata segreta. Come diceva Jason, “i giornalisti sono in cerca di scheletri nell’armadio che però non troveranno”.

Il commissario Barnes telefonò al Sig. Carter. Non aveva altra scelta se non quella di consigliargli Jason Brown come investigatore privato perché si era reso conto, anche se a malincuore, che il ragazzo era l’unico in grado di risolvere quel caso.

Il mattino dopo Arthur incontrò Jason in un bar vicino allo stadio.

“Salve, Lei è l’investigatore Brown? Volevo chiederLe di accettare un incarico”.

“Io non lavoro per conto della polizia”.

“Ed io non sono della polizia. Vorrei investigasse sulla morte di mia moglie e sulla scomparsa della mia medaglia.”

Dopo una lunga discussione, Jason accettò l’incarico.

Si recarono subito sulla scena del crimine e Jason osservò con molta curiosità il luogo dove era avvenuto l’omicidio. Jason chiese come fosse strutturato lo stadio: c’erano 2 anelli di circa 15 spalti e 25.000 posti.

“Quindi, ricapitolando, la sua medaglia è scomparsa e sua moglie è stata uccisa. Avrei bisogno di sapere se ci sia qualcuno che prova sentimenti di odio nei suoi confronti” chiese Jason ad Arthur.

“Non saprei, tra me e i miei avversari c’è molta rivalità durante le competizioni, ma non credo che nessuno di loro l’avrebbe fatto, sono persone corrette.”

“Invece al di fuori della competizione? La vostra famiglia ha mai avuto motivi di dissenso con qualcuno?”

“Non che io sappia, si racconta di uno scontro avvenuto tra il mio bisnonno e un vecchio amico di famiglia, ma credo si tratti solo di una storia inventata”.

“Si ricorda il nome di questo amico?”

“Ricordo vagamente il cognome russo, era qualcosa tipo Petrov”.

“Va bene, farò qualche ricerca. Ha per caso notato se Sua moglie si comportava in modo strano ultimamente?”

“No, non ho notato niente di diverso dal solito. Lei pensa che l’omicidio di mia moglie sia collegato al furto della medaglia? Ha già qualche idea?”

“È troppo presto per trarre conclusioni affrettate”.

Immerso nelle sue riflessioni, il detective salutò Arthur e salì in macchina, voleva andare a far visita ad una sua vecchia conoscenza che avrebbe potuto aiutarlo nello svolgimento delle indagini.

Mezz’oretta dopo Jason si trovava in un piccolo negozietto di antiquariato in periferia, “Luca’s antique”. Entrando nel negozio dove affascinanti tesori provenienti da tempi lontani affollavano gli scaffali in penombra, un uomo, intento a leggere un libro polveroso, alzò gli occhi al tintinnio della campanella appesa alla porta d’ingresso.

Si tolse gli occhiali, li appoggiò sul libro ed esclamò: “Jason! Ragazzo mio, come stai? Qual è il motivo di questa visita?”

“Io sto bene, sto indagando, come sempre. Tu come stai?”

“Le vendite sono un po’ lente, ma va bene così.”

“Avrei bisogno di quel libro che mi prestasti due anni fa, quello sulle leggende familiari”.

“Vado subito a prenderlo” e, dicendo questo, il vecchio signore scomparve dietro gli alti scaffali.

Tornò qualche minuto dopo con un librone intitolato “1000 leggende forse vere”, lo passò a Jason che lo ringraziò, lo salutò e uscì dal negozio.

Terza parte

Quella sera il nostro investigatore si dedicò alla ricerca di informazioni sulla famiglia Petrov e, quando finalmente le trovò, esultò – ricordava di aver letto quel nome nel libro anni prima -, poi si immerse nella lettura.

“Si narra di uno scontro avvenuto tra il ricco signor Kristian Petrov e il campione olimpionico Andrew Carter. Durante una gara Petrov fece scoppiare uno scandalo affermando che il rivale Andrew gli aveva rubato la medaglia d’oro delle olimpiadi”.

Jason capì che il furto della medaglia poteva essere legato a quello scandalo avvenuto tanto tempo prima e che quello era forse un tentativo di vendetta.

Ora gli restava da scoprire solo chi tra i discendenti del signor Petrov volesse vendicare l’antenato. Uno degli indizi che lo avrebbero condotto alla soluzione stava per arrivare.

In quel momento squillò il telefono, era Arthur: aveva appena scoperto che la polizia aveva trovato dei gemelli di una camicia che probabilmente appartenevano al ladro. Jason andò ad esaminarli e notò che sopra c’erano delle lettere, probabilmente le iniziale di un nome: Ч e П. Iniziò intanto a fare qualche ricerca per scoprire chi fra i presenti allo stadio avrebbe potuto introdursi negli spogliatoi e rubare la medaglia.

Quel giorno si recò di nuovo allo stadio per controllare di nuovo gli spogliatoi, ma notò con dispiacere che la polizia aveva già inquinato tutta la scena del crimine.

Alla fine capì che solo tre persone avrebbero potuto commettere quel furto, tutti e tre lavoravano allo stadio: Josef Martol, James Mistol e Jake Mirtor. Il caso era davvero intricato.

Dopo tre giorni di elucubrazioni, a Jason venne un’idea alquanto strana ma che aveva un senso più che logico. Aveva infatti notato che le iniziale sui gemelli della camicia sembravano una Y e un M e aveva dato per scontato che fossero proprio quelle dell’alfabeto internazionale, ma esse non gli corrispondevano esattamente. Jason fece qualche ricerca sugli alfabeti presenti nel mondo e scoprì che quelle lettere appartenevano all’alfabeto cirillico. Il ladro aveva quindi origini russe.

Ora le possibilità erano solo due, o Jake Mirtor, che aveva uno zio russo oppure Josef Martol, con un cugino e un trisnonno russi.

Passata una settimana Jason chiese ad Arthur di incontrarsi in un bar per spiegargli quello che aveva scoperto.

Aveva rintracciato un testimone che si trovava ancora nello stadio ormai deserto dopo la competizione, era un addetto alle pulizie, e questi aveva rivelato che aveva sentito una discussione accesa tra Allyson e un uomo; subito dopo lei era stata trovata morta.

In quel frangente la donna aveva infatti rivelato qualcosa che aveva fatto impazzire l’uomo: a quanto pare, erano amanti e lei voleva interrompere la loro relazione; egli, furioso per la sua decisione, l’aveva spinta giù dagli spalti e, dopo essersi accorto di averla uccisa, era scappato senza lasciare tracce. L’inserviente aveva taciuto fino a quel momento perché temeva ritorsioni nei suoi confronti.

Riguardo al furto della medaglia, il ladro era invece Josef Martol, nipote del signor Kristian Petrov. Mosso dalla voglia di vendicare il trisnonno mancato qualche mese prima, Josef si era intrufolato negli spogliatoi e aveva rubato la medaglia urtando il contenitore delle vitamine che era caduto a terra. Purtroppo per lui aveva perso inavvertitamente anche i suoi gemelli con le indicazioni in alfabeto cirillico.

Il suo vero nome era in realtà Luka Parkinson ma, per non far insospettire nessuno, aveva cambiato nome, da russo si era finto inglese.

Quarta parte

La risoluzione del caso arrivò poco dopo anche alla polizia, che, dopo aver rintracciato Luka Parkinson e averlo mandato in un carcere, restituì la medaglia al vero proprietario.

Jason, che aveva risolto questo caso, non ebbe molto tempo per riposarsi: il Primo Ministro inglese era stato trovato disteso in una pozza di sangue con un pugnale trafitto nel petto.

Ora il famoso investigatore Jason Brown aveva un nuovo caso da risolvere.

OMICIDI PARALLELI

di Ada Becatti, Letizia Garsia, Bianca Mangiavacca, Paolo Navach, Giulia Temporiti

Introduzione (flashback) 

Nella veranda le voci del maggiordomo Carson e della ricca signora Abbey Jones-Wilson 

risuonano per tutta la grande, vuota villa.  

“Ortiz, cosa c’è per cena? Tra poco arriverà Diana”. 

“Vado subito a chiedere. Non vorrei essere indiscreto, ma posso chiederLe il motivo della visita di sua sorella?” 

“Motivi di soldi, qualcosa del genere, pare che Sybil l’abbia mandata per intercedere per lei”.

“Capisco; un ultimo particolare, non la vedo entusiasta”. 

“Solo pensierosa. Diana non si accorge che sua madre la manovra.” 

“Quale stanza preparo?” 

“Quella al secondo piano, in fondo al corridoio.” 

Il rumore del battente interrompe la conversazione. 

“E’ arrivata”.  

Lentamente il maggiordomo si dirige alla porta, gira la manopola e la lascia entrare. 

Parte 1 

Lyra Lincoln arrivò, dopo un faticoso viaggio, alla piccola locanda del paese di Alfiston. Stava iniziando a sistemare i suoi oggetti, quando l’inserviente dell’hotel bussò alla porta della sua stanza per dirle di un’urgente chiamata al telefono della reception. Lyra scese in fretta le scale e tirò su la cornetta. La voce agitata di un uomo di una certa età disse:  

“Signorina Lincoln, sono Carson Ortiz, il maggiordomo di Osborne House, mi trovo a Faleigh Street. Stamattina ho trovato la signora Abbey Jones-Wilson morta. La circostanza è macabra, la signora galleggia in una pozza di sangue all’interno di una delle fontane presenti al centro del giardino.”  

“Sembra un caso interessante, arriverò fra pochissimo”. 

“Grazie per la disponibilità”. 

“Condoglianze per la signora”. 

Lyra, leggermente sorpresa da quella strana conversazione, si mise l’animo in pace: quella telefonata sarebbe stata l’inizio di una lunga indagine che avrebbe occupato tutto il suo soggiorno ad Alfiston. 

 L’investigatrice Lyra Lincoln era una trentacinquenne di media statura, gambe affusolate, lunghi capelli biondi e con un paio di inconfondibili occhiali dorati. Aveva l’aria di una manager di un importante ufficio: portava sempre con sé una piccola borsetta rossa e un lungo cappotto di pelle beige. I suoi occhi erano sempre vigili, di un color blu intenso, profondi, capaci di nascondere anche le emozioni più forti.  

Aveva un carattere molto forte, imprevedibile, un poco lunatico: riusciva a essere dolce e allo stesso tempo irremovibile. Era una persona molto ambiziosa, un po’ presuntuosa, dotata di una grande memoria visiva. Aveva una grande capacità di intuizione ed un senso di ironia non del tutto scontato. 

Nonostante la sua giovane età aveva una grande esperienza in delitti ed una carriera da investigatrice molto quotata. Lyra Lincoln era una detective richiesta da molti paesi per la sua abilità, temuta da molti criminali per le sue capacità di lotta e per il suo acuto ingegno. Non aveva una posizione fissa: in un anno poteva trasferirsi in dieci città diverse disperse per il mondo. Era passata da Washington a Tokyo, da Londra a Los Angeles. Lyra era nata a Milano l’11 ottobre 1950 da una famiglia di ingegneri. Era andata all’università e si era laureata in chimica all’età di 24 anni. Già durante i suoi studi aveva iniziato a prendere parte a alcune indagini guidate dalla polizia. Dopo la laurea aveva deciso di trasferirsi a Washington per risolvere alcuni misteriosi attacchi al presidente americano. Le sue enormi abilità erano state riconosciute da un agente di polizia, Max Mcnulty, che aveva fatto di tutto per inserire Lyra nel FBI, il Federal Bureau of Investigation. Dopo alcuni interrogatori la giovane detective ci era riuscita. Dopo un soggiorno di 6 mesi a Washington Lyra si era spostata a Tokyo dove era entrata a far parte della polizia giapponese grazie alla brillante soluzione di un furto dei “Simboli imperiali giapponesi”. Dopo Tokyo era andata a Londra per prestare servizio di sicurezza in alcune cerimonie reali: qui aveva risolto il caso del rapimento del Duca Bournemouth da parte di un gruppo criminale nordirlandese ed immediatamente era stata assunta nella polizia di Scotland Yard. In meno di un anno si era ritrovata così a far parte delle agenzie investigative più importanti al mondo. 

 Nonostante i suoi numerosi titoli Lyra Lincoln era poco conosciuta dalla popolazione: infatti non aveva mai tenuto discorsi o scritto articoli su giornali famosi. Il motivo per cui Lyra aveva deciso di diventare una detective era ancora un mistero: non aveva mai mostrato questa sua passione quando era ragazza. Solo dopo la sua laurea aveva deciso di viaggiare per il mondo e abbondonare totalmente la sua carriera da chimica.  

Quel giorno scese le scale in tutta fretta, si mise il cappotto e salì sul primo taxi che trovò. Dopo poco arrivò alla grande villa dall’aspetto imponente e subito venne accolta dal maggiordomo che poco prima l’aveva chiamata al telefono.  

Sembrava tranquillo, infatti i suoi gesti erano calmi ed eleganti; ma il suo volto lo tradiva. Si avvicinò all’investigatrice e la salutò. 

“Buonasera sig.na Lincoln, vedo che è arrivata rapidamente, La ringrazio per la sua disponibilità e mi scuso con Lei per la chiamata improvvisa, mi sembrava la cosa più adeguata da fare.” 

Dopo una piccola pausa il maggiordomo le fece cenno di entrare e la accompagnò in salotto dove le propose una tazza di tè. L’investigatrice la rifiutò cercando di passare subito al motivo della sua venuta lì senza sembrare maleducata. 

Lyra chiese: “Mi porterebbe alle fontane di cui prima mi ha parlato?” 

“Certamente, si trovano nel giardino, mi segua” rispose il maggiordomo. 

Usciti dalla veranda, percorsero un vialetto di sassi e sbucarono in un grande giardino, in breve raggiunsero le fontane che si trovavano ai lati del vialetto principale.  

Il cadavere galleggiava nella fontana, i vestiti erano zuppi d’acqua e i corti capelli grigi fluttuavano. Lyra girò il corpo della morta e scoprì un viso tranquillo con gli occhi chiusi.  

“Allora, la signora Jones-Wilson è stata con buonissima probabilità affogata: mi sorprende molto il suo tranquillo viso, probabilmente le sono stati somministrati potenti sonniferi. La signora ne prendeva regolarmente?” 

“Non regolarmente, solo quando aveva dei forti dolori che le impedivano di dormire. Non è un farmaco molto potente.” 

“Che tipo di sonniferi? Posso vedere la confezione?” 

“Certamente, vado a prenderla.” 

Quando il maggiordomo entrò in casa, Lyra iniziò ad ispezionare la fontana: i suoi occhi furono attratti da un piccolo oggetto sul fondo. Dopo pochi minuti il maggiordomo tornò con in mano una piccola scatoletta beige. L’investigatrice la aprì e ci trovò dentro delle piccole pastiglie bianche. 

“Posso tenerle?” 

Il maggiordomo annuì.  

“Prima che vada devo riferirLe una cosa, ho trovato un bottone nella fontana, mi sa dire se ne ha mai visti di uguali in giro?” Lyra mostrò il bottone al maggiordomo. 

Dopo una veloce occhiata egli rispose: “La signora aveva un bottone simile attaccato alla vestaglia da notte, non la indossava spesso perché le procurava fastidio”. 

“Grazie per l’informazione, presto arriveranno a prendere il corpo. Ha già avvisato i parenti?” 

“L’unica a saperlo è la matrigna, ora non è in casa.” 

“Vive qui?” chiese incuriosita Lyra. 

“Sì, è rimasta qui anche dopo la morte del marito.” 

“Non converrebbe riferirlo alla sorella? Vorrei anche farle qualche domanda.” 

“In realtà si tratta di una sorellastra, Diana, figlia della seconda moglie del signor Abbey-Jones. Naviga in cattive acque, poveretta. Ho chiamato stamattina ma nessuno ha risposto, riproverò più tardi.” 

“Okay, mi faccia sapere, arrivederci”. 

“Arrivederci”. 

Lyra uscì dal cancello della villa, girò l’angolo di Faleigh street e andò a sbattere contro un anziano signore. Un po’impacciata lo aiutò a rialzarsi: l’uomo si scusò affannosamente. 

“Scusi lo scontro, sono molto agitato. Stanotte, da casa mia, ho visto una cosa piuttosto strana: una figura furtiva posizionata sul bordo della fontana di Hosborne House con una mano nell’acqua, sembrava avesse perso qualcosa.” 

“Interessante, mi potrebbe riferire l’orario della sua visione?” chiese Lyra colta di sorpresa.  

“Circa alle 4 di mattina, mi ero svegliato per un dolore all’inguine”. 

“Grazie per l’informazione. Buona giornata”.  

“ArrivederLa,  grazie per l’aiuto”. 

Lyra tornò frettolosamente alla locanda: appena entrata in camera, si sdraiò sul letto piuttosto stanca dalla lunga giornata e osservò intensamente il soffitto. Dopo pochi minuti il campanello della camera suonò: Lyra fece un grande respiro e lentamente si alzò.  

Un cameriere si presentò alla porta annunciandole una chiamata dal maggiordomo di Hosborne House.  

“Signorina Lincoln, ho richiamato al fisso della casa di Diana Jones-Wilson, ma nessuno ha risposto.” 

“Va bene, grazie. Piuttosto strano. Andrei a visitarla domani, che ne dice?” 

“Sì, certamente. Si trova al 5 di Teylo street”. 

“Grazie mille, arrivederci”. 

Il mattino successivo, molto presto, Lyra decise di uscire, anche se l’orario e il suo umore non erano dei migliori. Si diresse a piedi verso l’abitazione in Teylo street: in meno di quindici minuti arrivò davanti a una buia casa di ringhiera vicino ad una piccola chiesa, molto silenziosa. Suonò il campanello, ma nessuno rispose. Aprì cautamente la porta; subito sentì un forte odore di incenso. Ispezionò l’appartamento e dopo pochi minuti uscì, sorpresa dalla sua recente visione.  

Poco dopo Lyra fu contattata dalla polizia di Scotland Yard che si trovava a New Scotland Yard, un paesino vicino ad Alfiston. Decisero di incontrarsi alla villa in modo da poter interrogare il maggiordomo e la matrigna, Sybil Jones-Wilson.  

Si posizionarono nella veranda: il primo interrogatorio fu quello di Carson Ortiz, era presente solo la polizia.  

“Allora, ci racconti in modo dettagliato i fatti di due sere fa” disse l’agente. 

“La signora quella sera ebbe alcuni dolori: intorno a mezzanotte e mezza circa mi chiese di somministrarle il solito sonnifero che usava quando stava male e che ho già consegnato alla signora Lincoln. Dopo la somministrazione le feci fare un giro nel parco in carrozzina per farla rilassare e addormentare. La riportai in camera e la misi a letto.” 

“Solo questo?”  

“Qualche ora dopo ho sentito qualcuno che camminava in direzione della cucina, probabilmente la signora Sybil. I passi, poco dopo, tornarono da dove erano venuti.” 

“Mi saprebbe riferire l’orario?” 

“Non saprei, ero a letto, mi sembra fossero le due”.  

“Grazie, ora mi può chiamare la vedova?” 

“Vado”.  

Sybil entrò nella stanza e si accomodò. 

Lyra cominciò: “Sa dirmi qualcosa sulla notte di due giorni fa?” 

“Niente in particolare, dopo la cena abbiamo preso un tè e siamo saliti, io mi sono addormentata subito al contrario di Abbey.” 

“Lei vive qui da quando suo marito è morto? La casa a chi l’ha lasciata?” 

“Ho sempre vissuto qui, anche se la casa era stata lasciata da mio marito solo ad Abbey perché credeva che avrebbe avuto più abilità nell’investire i soldi e perché le voleva molto bene, infatti gran parte dell’eredità andò a lei.” 

“Capisco” fece una pausa e ricominciò “Lei ha problemi di sonno?” 

“No, ho sempre dormito bene senza bisogno di sonniferi o altro.” 

“Aveva dei problemi con le sue figlie?”  

“No, con nessuna delle due, ho sempre voluto bene ad entrambe, anche alla povera Abbey, come se fosse mia figlia.” 

“Grazie mille, venga, La accompagno in salotto dagli altri.” 

Arrivati in salotto, Lyra annunciò: 

“Ho fatto analizzare un campione del sonnifero preso dalla signora quella sera, abbiamo scoperto essere un sonnifero molto più potente di quello indicato sulla scatola” continuò senza badare alla reazione degli altri “Inoltre ho una spiacevole notizia. Anche Diana Jones-Wilson è morta!” 

Parte 2 

Sui volti di tutti i presenti si disegnò un’espressione di stupore. Lyra rimase impassibile, anzi sorrise gentilmente alla matrigna, la cui espressione sfumava in una lenta disperazione. Il primo a riprendersi fu l’ispettore Huge: “Una notizia veramente inaspettata, grazie per avercela riferita.  A questo punto abbiamo da investigare su due morti. Dobbiamo capire se questi due omicidi sono collegati tra loro.” 

“Secondo me, i due omicidi non sono collegati fra loro: per averne la certezza dovrei però interrogare di nuovo un gentile signore con cui ho avuto il piacere di scontrarmi ieri pomeriggio. Abita in Cathedral Road, una traversa di Faleigh Street.” disse Lyra. 

“Prego, se ne sente la necessità, vada pure” rispose spazientito Huge.  

Lyra uscì dalla villa e si diresse verso la casa di Aron, l’uomo con cui si era scontrata. Cercò il nome sul citofono e, quando lo trovò, una voce rauca e pacata rispose. 

“Buongiorno, sono la donna con cui si è scontrato ieri e sono una detective. Ho scoperto che Lei è l’unico testimone di una triste morte. Le dispiace se Le faccio qualche domanda su ciò che ha visto?” 

“Salga al 3° piano.” 

Lyra salì le scale e venne accolta nella casa di Aron: si accomodò nel salotto dove le fu offerta una tazza di tè che si affrettò a rifiutare, come era suo solito. 

“Cosa vide di preciso quella notte? Che ora era?” 

“Era buio, come Le ho detto, ma ho visto qualcuno accasciato sulla fontana che si vede dalla finestra della mia camera. Non ho mai fatto caso a quello che i proprietari facevano, devo ammettere che la tenutaria non era il mio tipo, accumulava soldi per poi…?” 

“Capisco.” 

“A proposito dell’orario non so che dire, credo fossero circa le 4:00.” 

“Nessun altro rumore o visioni?” 

“Poco dopo aver visto la figura alla fontana, ho sentito dei passi uscire dalla porta della casa vicina. Non mi sorpresi perché era già da qualche tempo che il signor Clark usciva presto alla mattina”. 

“Conosce bene questo suo vicino?” 

“Non molto, è da poco che si trova qui, da qualche mese. So che non ha un’occupazione fissa, svolge diversi lavori”. 

“Mi sa dire gli orari che tiene il suo vicino durante il giorno?” 

“In questo ultimo periodo, come ho già detto, esce molto presto alla mattina per rientrare poi verso le nove. Esce poi di nuovo intorno alle undici e rientra verso le 5 di sera. Non sempre però rispetta questi orari.” 

“Grazie per le informazioni, La pregherei di comunicarmi quando il signor Clark rientra a casa stasera”. 

“Certamente, arrivederci.” 

Lyra tornò alla villa, dove l’ispettore Huge la stava aspettando. Ritornarono alla casa della signora Diana Jones-Wilson: aprendo la porta il noto odore di incenso riempì il naso di Lyra, poi l’investigatrice condusse l’ispettore nel luogo dove si trovava il corpo della morta. Era in una camera che si affacciava su una stradina laterale: il corpo era disteso su un letto al centro della stanza. L’aria che si respirava era pesante, l’incenso aveva annerito le pareti e le coperte erano nere di fuliggine: la pelle del cadavere era raggrinzita e aveva lo stesso colore del sottile lenzuolo che la ricopriva. Il volto mostrava dei lineamenti perfetti: le labbra erano aride, di un pallido colore rosa, e gli occhi verdi erano spalancati in uno sguardo di disperazione. Il forte odore di incenso proveniva da un turibolo posizionato sul davanzale. La scena colpì Lyra più profondamente della prima volta: 

“Qui sicuramente è avvenuto un avvelenamento e un soffocamento allo stesso momento.” 

“Bisogna comprendere come ha fatto a procurarsi l’incenso e scoprire l’orario del delitto per capire le possibilità che il primo assassinio abbia avuto di uccidere non solo Abbey Jones-Wilson, ma anche la sorella Diana” disse l’ispettore.  

“Ho la risposta per entrambe le domande, mi segua”. 

Lyra condusse l’ispettore alla piccola chiesa: batté il battente della porta del campanile, un parroco aprì e li fece accomodare.

Lyra discretamente chiese: “Buon pomeriggio, scusi il disturbo, volevo chiederLe di raccontarci la sua giornata di ieri”. 

“Ieri era domenica, giorno in cui solitamente consacro le case di Alfiston. Mi sono alzato presto e ho portato la mia benedizione nelle case. Sono ritornato in mattinata e ho continuato le mie celebrazioni.” 

“Solitamente cosa porta con sé quando benedice le case?” 

“Utilizzo dell’incenso e dei santini che posiziono sulle maniglie delle porte”. 

“Ha visto qualcuno in giro ieri mattina?” 

“Pochissime persone tra cui alcuni contadini che si dirigevano verso le campagne”. 

“Ha parlato con qualcuno?” 

“Sì, con un uomo che mi ha chiesto l’orario”. 

“Mi potrebbe portare nel magazzino dove tiene l’incenso?” 

“Certo, a proposito è da qualche giorno che ne mancano alcuni contenitori.” 

Il magazzino dell’incenso si trovava affacciato sulla piccola stradina dalla quale Lyra e l’ispettore erano entrati: era una stanza buia stracolma di scatole rosse che emanavano una forte fragranza profumata. Su uno scaffale erano presenti anche due turiboli.  

“Ecco, vede, solitamente qui erano presenti tre turiboli, mancano poi alcune scatolette di incenso.” 

“Lei non Le ha prestate a nessuno?” 

“No, nessuno me le ha richieste”. 

“Grazie, il nostro incontro è finito, La pregherei di farsi trovare ad Hosborne House stasera alle 20, arrivederci”. 

“Certamente, arrivederLa, che il Signore sia con Lei”. 

Lyra e l’ispettore Huge uscirono dalla chiesa e si diressero nuovamente ad Hosborne House. L’ispettore convinto di sé disse: 

“Non c’è dubbio che il parroco abbia mentito”. 

Lyra con voce convinta e maliziosa rispose: 

“Assolutamente sbagliato, credo di non aver mai assistito ad un interrogatorio così sincero”. 

L’ispettore continuò a camminare a testa bassa, umiliato dalla secca risposta.  

Arrivati alla villa, Lyra annunciò al maggiordomo e alla matrigna: 

“Stasera vorrei invitare tre persone in modo da potervi riferire i risultati delle indagini che ho condotto fino a questo momento”. 

“E’ arrivata ad una conclusione?” chiese speranzoso il maggiordomo. 

“Le conclusioni portano solo a degli inizi; adesso, se permettete, uscirei per un’ora per andare a verificare alcuni indizi.” 

Lyra uscì per l’ennesima volta da quella villa, sperando che fosse l’ultima. Si diresse verso il tribunale del paese: una guardia la fece entrare e la condusse nella stanza dove tenevano vari documenti riguardanti Alfiston. Dopo aver frugato un po’ fra le carte trovò quella che la interessava. Non rimase sorpresa nel leggere il cognome Clark scritto a caratteri cubitali su una sentenza giuridica risalente alla Seconda Guerra mondiale.  

Parte 3 

Sei persone erano sedute nella veranda di Hosborne House: Carson Ortiz, Sybil Jones-Wilson, l’ispettore Huge, il parroco Felice Powell, il signor Aron e uno sconosciuto; si guardavano con occhi furtivi e attenti. Appena il battente rintoccò, il maggiordomo corse ad aprire: Lyra con massima tranquillità entrò nel grande ingresso e si diresse verso la veranda.  

“Buonasera, vedo che ci siete tutti, alcuni di voi non sanno perché sono qui. La motivazione potrebbe essere intuibile, ma non a tutti chiara: in breve vi spiegherò i fatti di questa domenica che hanno portato alla morte delle due sorelle Jones-Wilson”  

Lyra cominciò: “Iniziamo ad analizzare il primo assassinio di cui siamo venuti a conoscenza: non tutti qui avevano a cuore Abbey tanto quanto altri. Il maggiordomo mi aveva riferito che quella sera la signora aveva avuto qualche problema ad addormentarsi, e, come era suo solito, si era fatta somministrare una dose di un leggero sonnifero che io ho analizzato. Il sonnifero si è rivelato molto più potente delle indicazioni date dal bugiardino. Subito dopo Ortiz l’ha portata a fare un giro in carrozzina fuori per far sì che il sonnifero avesse effetto. Sarebbe facile incolpare il maggiordomo della morte della sua padrona se non fosse per gli orari che non coincidono. Infatti Aron ha affermato che alle 4 di notte ha intravisto una figura accasciata su una fontana e invece Carson è uscito a mezzanotte. Il bottone presente nella fontana poteva essere sia dell’assassino come della morta, mi è stato riferito però che Abbey non portava mai quella vestaglia perché le provocava fastidio. Molto gentilmente, inoltre, il maggiordomo mi ha permesso di ispezionare le varie camere della casa: in quella di Sybil ho trovato delle impronte di fango e, nascosta nel fondo di un cassetto, la vestaglia priva del bottone. Vi faccio adesso un breve riassunto delle azioni dell’assassino: qualche giorno prima è andato a comprare dalla farmacista del paese, che puntualmente mi ha riferito di questo fatto, un sonnifero più potente del solito. L’ha somministrato a Abbey e poi l’ha ha portata addormentata con una carrozzina nel giardino dove l’ha affogata nella fontana, perdendo il bottone poi ritrovato. Il nostro astuto assassino non è altro che la matrigna Sybil Mason che, per ottenere l’eredità della sua ricca figliastra, l’ha assassinata.” 

Il silenzio che prima circondava i partecipanti si fece ancora più pesante: tutti i presenti lanciarono degli sguardi sconvolti verso Sybil Mason che osservava intensamente Lyra. La matrigna si alzò lentamente e fu ammanettata dall’ispettore di polizia: il maggiordomo si sistemò più comodo sul divano aspettando che Lyra finisse di parlare.  

“Ora analizziamo il secondo assassinio che ha portato alla morte di Diana Jones-Wilson: c’è da precisare prima di tutto che i due omicidi non sono collegati. Sono avvenuti a pochi minuti di distanza, ma sono stati compiuti da assassini diversi. Le mosse del nostro omicida si sono svolte in questo modo: da più giorni stava ispezionando il luogo del delitto per organizzare tutto al meglio, l’omicidio si è verificato alle 4.15 di domenica mattina. L’assassino è entrato dalla porta principale della casa di ringhiera: ha raggiunto la camera della signora addormentata e le ha fatto ingerire del veleno, successivamente ha posizionato anche un turibolo d’incenso sul davanzale. La decisione di usare sia il veleno che l’incenso è stata molto astuta: infatti l’incenso non avrebbe mai portato al soffocamento totale, quindi il veleno è stato usato come garanzia del risultato. L’incenso è stato sicuramente recuperato dal magazzino della chiesa, presente di fianco alla casa, da un po’ di giorni mancavano proprio dei turiboli. La parte più interessante di questo assassinio però è il movente: appena entrata in questa villa ero stata attratta da un articolo di giornale appeso a una parete relativo alla signora Diana in cui veniva celebrata per aver contribuito alla condanna di una certa  Astrid Clark. Ho deciso quindi di recarmi nel tribunale di Alfiston per informarmi riguardo al processo avvenuto negli Anni ‘40 e nel quale era imputata Astrid Clark per aver compiuto un omicidio. La testimonianza di Diana è risultata determinante per la condanna della signora Clark e il figlio non ha mai avuto pace finché non ha deciso di vendicarsi di lei. Nella soluzione di questo caso mi è stato di enorme aiuto il signor Aron che mi ha rivelato che il figlio di Astrid era il suo vicino; vero, signor Clark?” Lyra si rivolse allo sconosciuto “ Ora anche Lei dovrebbe essere ammanettato come Sybil Mason per aver contribuito alla scomparsa della generazione Jones-Wilson.” 

Martin Clark, visibilmente sorpreso, non mosse un muscolo e osservò attentamente il pavimento. L’ispettore lo ammanettò e lo fece sedere vicino alla signora Mason.  

“Bene, signori, il nostro incontro è finito. Per il signor Clark e la signora Mason, ora spetta a Lei decidere cosa fare, ispettore, io non mi prendo la responsabilità. Buona serata.” concluse Lyra rivolgendosi al collega imbronciato.  

Lyra uscì da Hosborne House e si diresse verso la locanda, già stanca di quel piccolo paese.  

Lyra Lincoln era riuscita a risolvere due complicati omicidi grazie alla sua immensa intuizione, ma soprattutto aiutata dalla sua enorme sicurezza.  

“Ho rischiato questa volta ma ho avuto fortuna, quella ci vuole in ogni momento. Sempre.”  

Archivio Articoli